Inauguro la nuova rubrica “Interviste a bella gente” con l’intervista a Erika Marconato che con Matteo Brunati ha dato vita a #CivicHackingIT, un progetto per raccontare il civic hacking in Italia.
Io e Erika ci siamo conosciute allo scorso WordCamp a Torino grazie alla nostra amica comune Alice (che tutte e due abbiamo conosciuto online!). Con Erika ho conosciuto il civic hacking e il concetto di open data, a me ancora completamente sconosciuti. Sono concetti sconosciuti anche per voi? Bene, tra poco non lo saranno più.
Perché è lei ad aprire questa nuova rubrica?
Perché mi piace parlare di e con belle persone, determinate e appassionate e chi meglio di lei poteva fare da apripista?
Buona lettura.

Ciao Erika, la prima domanda è banale ma di rito: chi sei?
Sono una donna nata a metà degli anni Ottanta. Mi piacciono le parole e le storie. Dato che leggo molto e scrivo decisamente molto meno – ma comunque più della media, mi sono auto-proclamata biblio-nerd. Sono curiosa e ho un bizzarro senso dell’umorismo. Ascolto un sacco di musica e di podcast. Mi affascinano le dinamiche sociali, l’openness in tutte le sue cinquanta sfumature e l’intelligenza collettiva. Nella vita, ho fatto tanti lavori: dalla cameriera alla bibliotecaria alla social media manager, passando per la scrittura di articoli per una rivista letteraria e la valutazione di manoscritti per una casa editrice indipendente. In questo momento, sono concentrata su #CivicHackingIT, un progetto per raccontare il civic hacking in Italia, che ho fatto partire con Matteo Brunati un paio di anni fa con una newsletter settimanale e un blog su Medium.
Cos’è il civic hacking e come te ne sei appassionata?
Il civic hacking è un approccio creativo e, spesso, legato alla tecnologia per risolvere problemi civici concreti. Un modo personale per dire “mi interesso di questa cosa e sfrutto quello che so per trovare una soluzione”.
Il mio gancio per il civic hacking, come per molte altre cose della mia vita, sono state le persone. L’Italia è piena di gente che fa cose fantastiche, ma non le racconta, un po’ per modestia, un po’ per mancanza di educazione allo storytelling. Prima di cominciare #CivicHackingIT, ho seguito per diversi anni la vita della comunità di Spaghetti Open Data, un gruppo di persone che fanno cose con i dati. C’erano giornaliste e giornalisti che facevano inchieste interessantissime, attivisti digitali che cercavano soluzioni a problemi concreti tipo monitorare i fondi europei o i beni confiscati alla mafia, gente che cercava un modo di mettere a disposizione le proprie competenze per le Amministrazioni Pubbliche o il sociale. Il tutto a partire da “sterili” dati. Nellamailing list si discuteva di tante cose oltre ai dati, compreso come essere cittadini negli anni Dieci.
Eppure…
Di queste cose non ne parlava nessuno: nella bolla della comunità eravamo tutti piuttosto fieri – a ragione – di quello che succedeva in Spaghetti, ma le storie – i casi di successo, se vuoi – non uscivano da lì. Di fronte a questa situazione, io e la mia anima da cantastorie ci siamo sempre sentite molto frustrate.
Dopodiché, ho cominciato a seguire più attentamente le iniziative internazionali: perché gli americani potevano partecipare ad una conferenza TEDx raccontando di bei momenti portoricani emaiali selvatici hawaiani, mentre le cose straordinarie che succedevano qui passavano in sordina?
Io sono nata in Veneto e lì c’è l’idea che se hai tempo di raccontare quello che fai, non stai lavorando, quindi chi fa, tace. Nel mondo degli Open Data, stava succedendo più o meno la stessa cosa. Io, però, ho sempre amato raccontare quello che succedeva: anche all’interno della comunità di Spaghetti Open Data mi ero ritagliata il ruolo di storyteller (raccontavo i raduni via Twitter ben prima che mi venisse chiesto di curare l’account Twitter della comunità, ascoltavo le persone che volevano chiaccherare, facevo domande a chiunque). Insomma, ben prima di cominciare a strutturare #CivicHackingIT, mi piaceva (far) sapere quello che succedeva in Spaghetti Open Data.
Potrei dire che sono stati gli Open Data a farmi appassionare al civic hacking, ma mentirei. Sono le persone dietro i dati.
Quanto è importante l’open data nel civic hacking (e cos’è l’open data)?
Gli Open Data – o dati aperti, per i puristi dell’italiano – sono, secondo la definizione dell’Open Data Handbook, “dati che possono essere liberamente utilizzati, riutilizzati e ridistribuiti da chiunque, soggetti eventualmente alla necessità di citarne la fonte e di condividerli con lo stesso tipo di licenza con cui sono stati originariamente rilasciati”. Tutto chiaro, no? Scherzi a parte, sono un’infrastruttura, dei mattoni per fare cose. Quali cose? Si va da varie forme di business (openpolis, ad esempio, è una fondazione che trasforma i dati in informazioni utili attraverso applicazioni web, approfondimenti, inchieste, mappe, parole e numeri. Altri esempi di business alimentati dai dati aperti sono stati analizzati per OpenData200 da Francesca De Chiara e il suo team), fino a cose un po’ meno scontate, come spettacoli teatrali e articoli giornalistici. Ma possono essere usati anche per fare esperimenti, per conoscere il proprio territorio e tessuto sociale, come materiale didattico e per un sacco di altre cose. Se ti dicono che sono solo dati rilasciati dalle Amministrazioni Pubbliche, non crederci: solo per nominare alcune fonti non governative, la Banca Mondiale ha la sua bella sezione Open Data, Wikipedia ha almeno un paio di progetti sui dati – Wikidata e Dbpedia – e ci sono perfino alcuni organi di informazione che rilascianodataset che hanno usato per i loro approfondimenti.
Quando io e Matteo Brunati abbiamo cominciato a riflettere sulla relazione tra civic hacking e Open Data, abbiamo visto subito i dati come una componente fondante e fondamentale per fare civic hacking, tanto che li abbiamo messi tra i cinque elementi chiave (gli altri sono comunità informali, zone grigie, essere attori del cambiamento e prototipi).
Mi è piaciuta tantissimo la newsletter “Tra l’uovo di Pasqua e la frittata di Pasquetta…” che avete inviato il 20 aprile in cui avete condiviso la vostra “dieta informativa” associando, per ogni elemento di un piatto equilibrato, progetti, libri e newsletter che seguite volentieri. Dopo la dieta, ti chiedo, quali sono gli ingredienti “perfetti” per la ricetta di una buona e consapevole iniziativa di civic hacking?
Diciamo che i cinque che ho già elencato sono le cose essenziali da tenere in dispensa, ma la pasta in bianco stufa presto. Quindi, aggiungerei l’attitudine hacker (no, non quelli che ti rubano i dati, ma quelli veri di cui parla Tanya Snook in un pezzo che ho tradotto un po’ di tempo fa); la capacità di trovare nessi nuovi tra cose che già esistono; il tipo di remix che va oltre la musica – abilitato dal web e dalla sua struttura originaria, ne parla Lessig in un suo libro; il lavorare in ottica Open Source – indipendentemente dal codice; la voglia di mettere le mani in pasta, qualsiasi sia il problema che si decide di risolvere, e, come tutte le ricette del mondo, la capacità di improvvisare con gli ingredienti (per esempio, per te, che lavori con l’UX e ce l’hai pure nel nome del sito, approcciare il civic hacking dall’angolo del design, come faCyd Harrell, è sicuramente più efficace che partire dalle storie o dalle persone, come faccio io).
Quali, tra le storie di civic hacking che hai conosciuto e ascoltato nel tempo, ti hanno colpita di più?
Tutte, si può dire? Immagino di no!
ConfiscatiBene me lo porto nel cuore perché l’ho visto nascere. Durante SOD14, il raduno di Spaghetti Open Data del 2014, Andrea Borruso ha proposto un hackathon dal titolo Gli OpenData per liberare l’Energia Potenziale dei beni confiscati alle mafie. Lui, attivista siciliano, voleva capire se i beni confiscati alle mafie fossero riassegnati e a chi. Come spesso succede nel civic hacking, un problema piccolo si rivelò essere un dilemma grande mascherato: quali e quanti sono i beni confiscati? Dove sono? A che punto è la riassegnazione? A chi sono stati riassegnati? Sono rientrati nel tessuto sociale del territorio? Esistono dati o database che si possono monitorare o studiare per avere le risposte?
Andrea, quindi, decidette di concentrarsi su un problema alla volta, a partire dal reperimento dei dati. Durante quel famoso hackathon, un folto gruppo di persone ha lavorato con lui per recuperare i dati (che all’epoca non erano rilasciati in Open Data) e renderli omogenei. Il risultato è stato un sito dimostrativo con mappe che raccontavano non solo i dati, ma anche le informazioni che contenevano. Successivamente, il lavoro è proseguito nella mailing list della comunità di Spaghetti Open Data. Dopodiché, il progetto si è trasformato: da esperimento ha messo su gambe e corazza ed è diventato un progetto stabile nelle file di varie realtà, tra cui Libera l’associazione contro le mafie. Oggi, ConfiscatiBene 2.0 incrocia moltissimi dataset che riguardano i beni confiscati da fonti diverse, oltre ad attivare comunità locali di cittadini che controllano e monitorano lo stato dei beni stessi (ma per capire meglio quello che fa, ovviamente, consiglio di farsi un giretto nel sito).
Nel tuo blog erikamarconato.it racconti di “editoria, scrittura, libri, storie e (un pizzico di) marketing”, hai scritto un libro “È questa la fine?” e hai un gruppo di lettura a Trento con un nome bellissimo “Cibo per la mente”. Quanto la passione per le storie, la lettura e la scrittura ha influito sul tuo interesse per il civic hacking?
Pur essendo il mio gruppo di lettura, il nome non l’ho proposto io, quindi riporterò i complimenti alle mie adorabili signore lettrici.
Se nel civic hacking non avessi trovato un aspetto squisitamente narrativo, non avrei mai considerato di investirci tempo ed energie.
Anche con gli Open Data (e parecchie altre cose della mia vita) è andata così: non mi sono mai interessati i dati di per sé, ma le cose che si possono fare con i dati. Ho cominciato a frequentare la comunità di Spaghetti Open Data perché volevo essere di supporto a Matteo Brunati, che è uno dei co-fondatori, ma è dopo qualche tempo, quando Elisabetta Tola ha presentato la sua inchiesta#ScuoleSicure, che ho capito che lì, in quella comunità di nerd e smanettoni, c’era qualcosa anche per me (infatti, continuo a parlarne anche a distanza di anni).
Però, l’aspetto letterario è solo uno degli elementi che mi hanno agganciata. Mi interessa l’elaborazione concettuale (la laurea in filosofia continua a fare capolino), ma non se è staccata dalla realtà, da quello che le persone fanno. Se il civic hacking fosse stato qualcosa che si trova solo nella famosa torre d’avorio, me ne sarei stancata presto, come mi stufo dei romanzi eccessivamente concettuali. Sono un’intellettuale un po’ pop, ecco.